diritto del lavoro

Onere probatorio nel licenziamento disciplinare

La Corte d’Appello di Milano, sezione lavoro, con sentenza 10 gennaio 2019 n. 1994, ha respinto il ricorso di un azienda che in primo grado (Tribunale di Busto Arsizio) non si era costituita ed era stata condannata a reintegrare un dipendente che aveva licenziato a seguito di contestazione disciplinare per avere sottratto da una autovettura delle cuffie auricolari durante il proprio turno di lavoro, restituite poi il giorno seguente.

I giudici d’Appello hanno precisato che il lavoratore che impugna il licenziamento si può limitare a contestare la sussistenza dei fatti posti alla base del recesso mentre il datore di lavoro avrebbe dovuto fornire la prova diretta dei fatti e non l’ha fatto.

Quindi, secondo i giudici d’Appello, il licenziamento è illegittimo perché manca la prova diretta dei fatti che lo hanno determinato. Se invece il datore avesse adempiuto all’onere probatorio, il lavoratore avrebbe dovuto dimostrare i fatti ostativi o impeditivi della sua responsabilità disciplinare.

Riduzione del personale, salvi solo i dipendenti disponibili alla turnazione: licenziamento illegittimo

La vicenda. Centro commerciale in crisi, a risentirne è anche il supermercato. A rischio, perciò, molti posti di lavoro, a cominciare da quelli degli addetti alle casse. Inevitabile, quindi, la scelta dell’azienda di optare per la riduzione del personale.

La «procedura di riduzione del personale» del supermercato però si era basata quasi esclusivamente sulla loro disponibilità ad accettare una turnazione per fasce orarie.

A contestare il modus operandi della società è una cassiera che ha perso il posto di lavoro ritenendolo un «licenziamento discriminatorio». E questa visione viene ritenuta corretta dai giudici che, prima in Tribunale e poi in Appello, censurano la linea seguita dall’azienda.
In sostanza, viene rilevato che «la società, in mancanza di accordo con i sindacati, aveva formato una graduatoria dei lavoratori ai fini della individuazione dei destinatari del provvedimento di recesso» e «aveva attribuito punteggi diversi ai criteri di scelta legali». Ancora più in dettaglio, viene sottolineato che «la notevole differenza di punteggio attribuita ai diversi criteri aveva determinato una rilevanza decisiva di quello organizzativo, fondato sulla disponibilità dei lavoratori ad accettare una turnazione per fasce orarie».

La Suprema Corte concorda con quanto sostenuto dai giudici di merito poiché «il criterio» adottato dall’azienda «rispondeva ad un intento discriminatorio nei confronti dei lavoratori che per gravi motivi, personali o familiari, non potevano aderire alla turnazione». A certificarlo «gli effetti del sistema di selezione» che «aveva condotto al mantenimento in servizio di coloro che avevano aderito alla turnazione e all’esclusione di quanti, invece, l’avevano rifiutata».

Fonte: ilgiuslavorista.it

Licenziamento: obbligo di repêchage e tutela reintegratoria.

Cass., sez. lav., 22 ottobre 2018, n. 26675

Secondo i giudici della Cassazione il licenziamento effettuato dal datore di lavoro per giustificato motivo oggettivo nei confronti di un dipendente, senza averne verificato l’idoneità ad alternative possibili mansioni compatibilmente con il suo stato di salute, è ingiustificato e determina l’applicazione della tutela reintegratoria.

Il caso. La Corte d’appello di Torino aveva dichiarato risolto il rapporto di una lavoratrice, dalla data del suo licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica alle mansioni e aveva condannato il datore di lavoro al pagamento di una indennità risarcitoria pari a venti mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

Per i giudici di appello infatti il recesso era stato intimato senza aver rispettato l’obbligo di repêchage, consistente nella ricerca di soluzioni alternative al licenziamento, compatibili con lo stato di salute, anche eventualmente dequalificanti.

Per gli stessi tuttavia, la violazione di tale obbligo non aveva configurato una ipotesi di manifesta infondatezza del fatto posto a base del licenziamento tale da comportare l’applicazione della tutela reintegratoria di cui al comma 4 dell’art. 18, st. lav.

Obbligo di repêchage e tutela reintegratoria. La lavoratrice nel ricorso in Cassazione sostiene invece che, ove sussistenti nell’assetto organizzativo della azienda mansioni compatibili con lo stato di salute del lavoratore, anche se inferiori rispetto a quelle precedentemente svolte, il motivo posto a fondamento del licenziamento sia da ritenersi del tutto insussistente, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria prevista dal comma 4 dell’art. 18, st. lav.

La Corte di cassazione accoglie tale motivo, ponendosi – ricordano i giudici di legittimità – nel solco del principio già affermato dalla stessa secondo cui il comma 7 dell’art. 18, st. lav., prevede espressamente la reintegrazione per il caso in cui il giudice accerti il difetto di giustificazione del licenziamento “intimato per motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore senza attribuire al giudice stesso alcuna discrezionalità” (v. Cass. 30 novembre 2015, n. 24377).

Non sembra pertanto dubbio – proseguono i giudici della Cassazione – stante il dato normativo di riferimento, che un licenziamento per motivo oggettivo in violazione dell’obbligo datoriale di adibire il lavoratore ad alternative possibili mansioni, cui lo stesso sia idoneo e compatibili con il suo stato di salute, sia qualificabile come ingiustificato.

Tale interpretazione appare anche confermata, ricordano, dal principio sancito di recente da Cass. 2 maggio 2018, n. 10435, afferente al licenziamento per motivi economici.

Infine – concludono – la decisione risulta coerente con la tutela riconosciuta a livello europeo e internazionale, anche di rango costituzionale, ai lavoratori disabili (dir. 78/2000/CE del 27 novembre 2000 e art. 26, Carta dei diritti fondamentali UE, nonché Convenzione sui diritti del disabile delle Nazioni unite del 13 dicembre 2006) e con il successivo sviluppo della legislazione in materia di tutele operanti in caso di licenziamenti intimati rispetto a contratti di lavoro stipulati successivamente al 7 marzo 2015 e difformi dal modello legale posto che “il d.lgs. n. 23 del 2015 ha previsto nell’ipotesi di difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore la tutela reintegratoria piena”.

Fonte: ilgiuslavorista.it

Licenziamento illegittimo: prime reazioni dei giudici di merito nell’attesa della Sentenza della Consulta sulla quantificazione della indennità

Come noto, la Corte costituzionale in data 26 settembre 2018 ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 3, comma 1, D.lgs. n. 23 del 2015 (Jobs Act), nella parte in cui determina in modo rigido, sulla base della sola anzianità di servizio, l’indennità spettante al lavoratore ingiustificatamente licenziato. Tale pronuncia della Consulta non risulta ancora depositata (dovrebbe essere ormai questione di giorni).

Il giudice del lavoro di Bari, a fronte di tale pronuncia costituzionale, pur nella consapevolezza – scrive – che “le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione […] e che tale pubblicazione nella specie non è ancora avvenuta, si ritiene di dover interpretare in maniera costituzionalmente orientata l’art. 3, comma 1 ancora (presumibilmente per pochi giorni) vigente, determinando l’indennità spettante al lavoratore ingiustamente licenziato, compresa fra un minimo di 4 e un massimo di 24 mensilità, sulla base dei criteri già enunciati dall’art. 18, comma 5, St. Lav., a sua volta richiamato dall’art. 18, comma 7, vale a dire in relazione all’anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti”.

Tribunale di Bari, sezione lavoro, 11 ottobre 2018.

Corte Costituzionale: il criterio di determinazione dell’indennità di licenziamento stabilito dal Jobs Act è illegittimo

La Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo il criterio di determinazione dell’indennità di licenziamento stabilito dal Job Act (art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23 del 2015), per il contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, nella parte -non modificata dal successivo Decreto dignità (d.l. n. 87 del 2018) – che determina in modo rigido l’indennità spettante al lavoratore ingiustificatamente licenziato.

Per la Corte costituzionale, come si legge nel Comunicato, non è in discussione il meccanismo di ristoro economico, c.d. a tutele crescenti, al posto della tutela reale; ad essere illegittimo è il sistema rigido di previsione di una indennità crescente in ragione della sola anzianità di servizio del lavoratore è, secondo la Corte, contraria ai principi di ragionevolezza e di uguaglianza e contrasta con il diritto e la tutela del lavoro sanciti dagli articoli 4 e 35 della Costituzione.

Tutte le altre questioni relative ai licenziamenti sono state dichiarate inammissibili o infondate.

Attendiamo di leggere la sentenza che verrà depositata nelle prossime settimane.

Fonte: ilgiuslavorista.it

Food delivery: non c’è subordinazione se il rider è libero di stabilire se e quando lavorare.

Nel rapporto di lavoro tra una multinazionale del food delivery e il rider, il fatto che il lavoratore sia libero di decidere se e quando lavorare, esclude il vincolo della subordinazione. La libertà di stabilire la quantità e la collocazione temporale della prestazione lavorativa, i giorni di lavoro e quelli di riposo, e il loro numero, rappresenta infatti un fattore essenziale dell’autonomia organizzativa, incompatibile con la natura subordinata del rapporto (nel caso di specie, il rider non aveva vincoli di sorta, in fase di prenotazione degli slot, nella determinazione dell’an, del quando e del quantum della prestazione).

Tribunale Milano, sez. lav., 10 settembre 2018, n. 1853

Fonte: ilgiuslavorista.it

Sezioni Unite: licenziamento nullo se intimato prima del superamento del periodo di comporto

Può un lavoratore venire licenziato per superamento del comporto se il periodo massimo di comporto fissato dalla contrattazione collettiva o dagli usi o secondo equità non risulti esaurito alla data del licenziamento?

No, secondo le Sezioni Unite della Corte di Cassazione.

I giudici hanno affermato il seguente principio di diritto: “il licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia o infortunio del lavoratore, ma prima del superamento del periodo massimo di comporto fissato dalla contrattazione collettiva o, in difetto, dagli usi o secondo equità, è nullo per violazione della norma imperativa di cui all’art. 2110, comma 2, c.c.”.

Ammettere come valido, sebbene momentaneamente inefficace, il licenziamento intimato ancor prima che le assenze del lavoratore abbiano esaurito il periodo massimo di comporto – spiegano le SS.UU. – significherebbe consentire un licenziamento che, all’atto della sua intimazione, è ancora sprovvisto di giusta causa o giustificato motivo e non è sussumibile in altra automa fattispecie legittimante. Si tratterebbe quindi di un licenziamento acausale disposto al di fuori delle ipotesi residue previste dall’ordinamento.

Pare quindi risolto il contrasto giurisprudenziale tra inefficacia fino all’esaurimento del periodo massimo di assenze concesso al dipendente e nullità ab origine del licenziamento intimato prima del superamento del periodo di comporto, a favore del secondo e più restrittivo orientamento.

(Cass. sez. un., 22 maggio 2018, n. 12568)

Garante Privacy: no al controllo indiscriminato e prolungato delle e-mail dei dipendenti

Il Garante Privacy, nella Newsletter n. 439 del 29 marzo 2018, è intervenuto sul controllo massivo e sulla conservazione illimitata delle e-mail dei dipendenti durante l’orario lavorativo, vietandone il controllo indiscriminato e prolungato delle e-mail da parte del datore di lavoro.

Nello specifico, l’Autorità ha vietato la memorizzazione indiscriminata ed indeterminata di dati esterni personali raccolti nel corso di un biennio da una società nei confronti di un proprio lavoratore subordinato nelle e-mail in entrata e in uscita, anche di natura privata e goliardica, scambiate con altri colleghi e collaboratori. Licenziato, il provvedimento disciplinare è stato poi annullato dal giudice del lavoro. Il Garante precisa che la società deve limitarsi a conservare informazioni ai soli fini della tutela dei diritti nel giudizio pendente.

 

Controlli a distanza dei dipendenti: quali sono i limiti

In tema di controlli a distanza la Terza Sezione della Cassazione Penale, con Sentenza n. 4564 del 10/10/2017, richiamando l’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori (richiamato dall’art. 114 del D.Lgs. n. 196/2003 e modificato dall’art. 23 D.Lgs. n. 151/2015), ha fatto rientrare nell’ambito applicativo della norma anche i “controlli difensivi”, volti all’accertamento delle condotte illecite che non siano meri inadempimenti della prestazione lavorativa, facendo diventare la “tutela del patrimonio aziendale” un valido motivo giustificatore dell’installazione degli apparecchi audiovisivi.

La Cassazione ha stabilito che i “controlli difensivi” posti in essere dal datore mediante l’installazione di apparecchiature (ad es. telecamere) nei luoghi di lavoro possono essere effettuati solo se la videoripresa non è mirata a verificare l’espletamento dell’obbligazione derivante dal contratto di lavoro e avviene nel rispetto del principio di libertà e dignità del lavoratore, che costituisce un “limite oggettivo invalicabile all’esercizio incondizionato del diritto del datore di lavoro a tutelare il patrimonio aziendale”.

(Cassazione penale, sez. III, Sent. n. 4564 del 10/10/2017 dep. 31/01/2018)

Videosorveglianza a tutela del patrimonio aziendale e controllo dipendenti: chiarimenti dell’Ispettorato.

Con la Nota n. 299 del 28 novembre 2017 l’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha fornito indicazioni operative finalizzate a rendere più celeri le procedure autorizzative.

Per le imprese che desiderano installare di impianti di allarme o antifurto dotati anche di videocamere ad attivazione automatica in caso di intrusione da parte di terzi, essendo la videosorveglianza finalizzata alla tutela del patrimonio aziendale, trova la sua legittimazione nella previsione di cui al primo comma dell’art. 4 St. Lav.

Se le videocamere si attivano esclusivamente con l’impianto di allarme inserito non sussiste alcuna possibilità di controllo preterintenzionale sul personale e pertanto il provvedimento, stante l’inesistenza di qualunque valutazione istruttoria, dovrà essere concesso dagli Uffici Territoriali in tempi brevissimi.