diritto del lavoro

Dimissioni per giusta causa in conseguenza di trasferimento ad oltre 50 km dalla propria residenza: il dipendente ha diritto alla NASpI senza dover provare l’illegittimità del provvedimento datoriale

Il Tribunale di Torino, con la sentenza n. 429 del 27 aprile 2023, ha censurato la prassi adottata dall’INPS in caso di dimissioni del dipendente conseguenti a trasferimento in sede distante più di 50 km dalla sua residenza che differenziava, in tali situazioni, il caso di dimissioni per giusta causa dalla risoluzione consensuale del rapporto.

L’INPS, infatti, aveva sostenuto che in caso di risoluzione consensuale il lavoratore poteva accedere “liberamente” alla NASpI, mentre nell’ipotesi di dimissioni per giusta causa il dipendente poteva ricevere l’indennità soltanto se dimostrava l’illegittimità del trasferimento indipendentemente dalla distanza tra la propria residenza e la nuova sede di lavoro.

Il Giudice torinese, invece, poiché la normativa di riferimento indica come unici requisiti per beneficiare dell’ammortizzatore sociale la perdita involontaria dell’occupazione, il fatto di aver almeno 13 settimane di contribuzione nei quattro anni precedenti ed aver svolto 30 giornate di lavoro effettivo nei 12 mesi che precedono l’inizio del periodo di disoccupazione (art. 3 D.Lgs. n. 22/2015), ha ritenuto che tale distinzione condurrebbe a riservare un diverso trattamento ad ipotesi analoghe in quanto nella fattispecie in esame, in cui il lavoratore viene trasferito in altra sede distante più di 50 km dalla propria residenza, «la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro è sostanzialmente equiparabile alle dimissioni, non essendoci alcuna differenza concettuale tra la dichiarazione di volontà con cui il lavoratore pone unilateralmente termine al rapporto di lavoro e la dichiarazione di volontà che confluisce, unitamente ad analoga dichiarazione del datore di lavoro, nell’accordo oggetto di risoluzione consensuale.».

Per il giudice del capoluogo sabaudo, in sostanza, le dimissioni rassegnate in conseguenza al provvedimento datoriale di trasferimento in oggetto «devono ritenersi involontarie perché determinate da una condotta datoriale che ha reso obbligata la scelta del dipendente, di qui la ricorrenza nella fattispecie in esame del requisito della “perdita involontaria” dell’occupazione».

Fonte: lpo.it

Licenziamento disciplinare: il lavoratore deve poter visionare visionare i filmati che ne hanno giustificato il licenziamento

Il datore di lavoro deve esibire i filmati che hanno giustificato il licenziamento disciplinare di un dipendende in caso di sua semplice richiesta, anche non accompagnata dall’attestazione che l’accesso sia strettamente necessario ai fini della difesa.

La Cassazione Civile, sezione lavoro, con sentenza Cass. 17 maggio 2023 n. 13492 ha ritenuto illegittimo il diniego opposto dal datore in ordine alla richiesta del lavoratore licenziato di visionare i filmati in sede di audizione nel procedimento disciplinare.

Precisano i giudici della Suprema Corte che sebbene l’art. 7 Stat. Lav. non preveda un obbligo in capo al datore di lavoro di mettere spontaneamente a disposizione del lavoratore la documentazione su cui si fonda la contestazione disciplinare, in base ai principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto, il medesimo è comunque tenuto ad offrire in consultazione i documenti connessi con il provvedimento disciplinare al dipendente incolpato che abbia richiesto di esaminarli.

Fonte: ilgiuslavorista.it

Licenziato per giusta causa il lavoratore che dileggia sull’orientamento sessuale del collega.

Un dipendente di un’azienda di trasporti autoferrotranvieri, concessionaria del servizio pubblico, rivolgeva frasi offensive riguardo all’orientamento sessuale della collega durante il servizio ed in luogo pubblico.

La lavoratrice, offesa per le frasi “sconvenienti” pronunciate ad alta voce nei suoi riguardi in presenza dell’utenza e in luogo pubblico, presentava una segnalazione all’azienda per il comportamento irrispettoso del collega, rivendicando la propria sfera privata e l’inaccettabilità e lesività della condotta perpetrata in suo danno, quale violazione del Codice Etico aziendale nonché delle regole di civile convivenza.

L’azienda attivava la procedura interna con la conseguente convocazione della Commissione di Inchiesta e, preso atto della sostanziale assenza di giustificazione e dell’atteggiamento offensivo e minaccioso del dipendente nei confronti del Presidente della Commissione, risolveva immediatamente il rapporto di lavoro per giusta causa in conseguenza della gravità degli addebiti.

Il lavoratore impugnava il licenziamento e il Tribunale confermava la legittimità del licenziamento mentre la Corte di appello, ritenendo sproporzionata la sanzione espulsiva, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ai sensi e per gli effetti dell’art. 18, comma 5, l. n. 300/1970 e s.m.i. dichiarava risolto il rapporto di lavoro e condannava parte datoriale al pagamento di un importo pari a venti mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori.

Per i Giudici di Appello il licenziamento era sproporzionato trattandosi di una condotta “inurbana” (in quanto concernente apprezzamenti sulla sfera sessuale di una collega), da considerarsi meno grave del “contegno inurbano o scorretto verso il pubblico”, e quindi andava punito con sanzione conservativa dal Regolamento allegato A) Regio Decreto n. 148/1931 e non espulsiva.

Il lavoratore licenziato proponeva ricorso in Cassazione e l’azienda datrice di lavoro proponeva ricorso incidentale e la Suprema Corte cassava la decisione impugnata, disponendo il riesame della complessiva fattispecie al fine della verifica della sussistenza della giusta causa di licenziamento, alla luce della corretta scala valoriale di riferimento indicata.

I giudici di legittimità, da un lato, cristallizzavano l’adeguamento degli standard valoriali dell’ordinamento, a cui deve essere attualizzata la nozione della giusta causa di licenziamento, con i principi di non-discriminazione, parità del trattamento, dignità della persona e dei diritti fondamentali alla riservatezza delle abitudini sessuali, dall’altro, stabilivano che il rispetto che merita qualsiasi orientamento sessuale è un “innegabile portato della evoluzione della società” negli ultimi decenni e la scelta che attiene alla sfera della sessualità intima e assolutamente riservata della persona va tutelata contro qualsiasi intrusione indebita con strumenti di reazione adeguati.

La Cassazione non ritiene condivisibile la lettura tollerante e riduttiva della Corte d’Appello qualificando come mero “comportamento inurbano” la condotta del lavoratore; tale condotta è contraria non solo alle regole di buona educazione e alle forme del vivere civile, ma a valori più pregnanti che sono espressione di principi generali dell’ordinamento e dei diritti di rango costituzionale, come la tutela dei diritti inviolabili dell’uomo (articolo 2) senza distinzione di sesso, la tutela dello sviluppo della persona umana (articolo 3), il lavoro come forme di esplicazione della personalità dell’individuo (articolo 4) da tutelare “in tutte le sue forme e applicazioni” (articolo 35).

In tal senso, pertanto, il dileggio irridente sull’orientamento sessuale in luogo pubblico ed in presenza di terzi soggetti non si può ridurre a semplice questione di buona educazione ma concretizza, invece, una condotta degradante e offensiva realizzata per ragioni connesse al sesso; tale condotta non consente la prosecuzione del rapporto lavorativo poiché incide sul sistema di impostazione valoriale dei diritti di rango costituzionale, oltre che ledere la generale esigenza di riservatezza di ogni individuo relativa al proprio orientamento sessuale, quale dato sensibile tutelato a livello nazionale e comunitario (d.lgs. n. 196/2003 e GDPR – Reg. UE n. 2016/679).

Cassazione Civile, sezione lavoro, Ordinanza 9 marzo 2023, n. 7029.

Fonte: ilgiuslavorista.it

Patto di non concorrenza: nullo il recesso unilaterale del datore

In tema di recesso unilaterale, la previsione della risoluzione del patto di non concorrenza rimessa all’arbitrio del datore di lavoro costituisce una clausola nulla per contrasto con norme imperative.

Il compenso relativamente alla clausola del patto di non concorrenza per i due anni successivi alla cessazione del rapporto di lavoro pattuito al momento dell’assunzione è quindi dovuto al dipendente essendo illegittimo il recesso unilaterale del datore nel corso di rapporto di lavoro.

Cass. civ., sez. lavoro, ord., 1° settembre 2021, n. 23723

Fonte: dirittoegiustizia.it

L’onere di specificazione delle “ragioni sostitutive” nel contratto a termine

Il datore di lavoro che voglia assumere con contratto a termine può farlo in presenza di ragioni tecniche, produttive, organizzative o sostitutive che giustifichino la apposizione del termine ed è tenuto a provare in giudizio la esistenza di dette ragioni.

Muovendosi all’interno delle ragioni sostitutive non ci si può limitare a indicare il tipo di ragioni parafrasando la dizione legislativa, ma bisogna adempiere a quell’onere di specificazione che la norma impone alle parti che stipulano il contratto individuale di lavoro (in assenza peraltro nel nuovo sistema di una delega di funzioni regolative al sindacato).

Indicare ragioni specifiche significa fornire indicazioni che consentano il controllo delle ragioni indicate. Una ragione giustificatrice o è controllabile o non è, tanto più se la legge impone di specificarla.

Sul punto, la Corte di cassazione ha affermato che l’apposizione del termine per “ragioni sostitutive” è legittima se l’enunciazione dell’esigenza di sostituire lavoratori assenti, da sola insufficiente ad assolvere l’onere di specificazione delle ragioni stesse, risulta integrata dall’indicazione di elementi ulteriori, quali, l’ambito territoriale di riferimento, il luogo della prestazione lavorativa, le mansioni dei lavoratori da sostituire, il diritto degli stessi alla conservazione del posto di lavoro, che consentano di determinare il numero dei lavoratori da sostituire, ancorché non identificati nominativamente, ferma restando in ogni caso la verificabilità circa la sussistenza effettiva del presupposto di legittimità prospettato.

In applicazione dei suindicati principi, occorre tener conto, quindi, del fatto che il concetto di specificità deve essere collegato a situazioni aziendali non più standardizzate ma obiettive, con riferimento alla realtà specifica in cui il contratto viene ad essere calato.

Tribunale Bari, 26 settembre 2019

Fonte: ilgiuslavorista.it

Conciliazione sindacale e relativa inoppugnabilità

La ratio dell’art. 412-ter, c.p.c. è quella di assicurare, anche attraverso l’individuazione della sede e delle modalità procedurali, la pienezza di tutela del lavoratore in considerazione dell’incidenza che ha la conciliazione sindacale sui suoi diritti inderogabili e dell’inoppugnabilità della stessa.

La norma codicistica dunque attribuisce valenza di conciliazioni in sede sindacale solo a quelle conciliazioni che avvengano con le modalità procedurali previste dai contratti collettivi e in particolare da quelli sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative, negoziazione collettiva intesa come punto di ponderata convergenza e composizione dei contrapposti interessi delle parti.

Pertanto il regime di inoppugnabilità concerne le sole conciliazioni sindacali espletate nelle sedi protette di cui all’ultimo comma dell’art. 2113, c.c., che richiama specificamente l’art. 412-ter, c.p.c., e dunque le sole conciliazioni sindacali che avvengono presso le sedi e con le modalità previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative.

Tribunale Roma, sez. III lav., 8 maggio 2019, n. 4354

Fonte: ilgiuslavorista.it

Il regime dell’onere probatorio nel licenziamento intimato in forma orale

Il lavoratore subordinato che impugni un licenziamento allegando che è stato intimato senza l’osservanza della forma prescritta ha l’onere di provare, quale fatto costitutivo della sua domanda, che la risoluzione del rapporto di lavoro è ascrivibile alla volontà del datore di lavoro, anche se manifestata con comportamenti concludenti; la mera cessazione nell’esecuzione delle prestazioni non è circostanza di per sé sola idonea a fornire tale prova.

Ove il datore di lavoro eccepisca che il rapporto si è risolto per le dimissioni del lavoratore, il giudice sarà chiamato a ricostruire i fatti con indagine rigorosa – anche avvalendosi dell’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio ex art. 421, c.p.c. – e solo nel caso perduri l’incertezza probatoria farà applicazione della regola residuale desumibile dall’art. 2697, comma 1, c.c., rigettando la domanda del lavoratore che non ha provato il fatto costitutivo della sua pretesa.

Cass., sez. lav., 8 febbraio 2019, n. 3822

Fonte: ilgiuslavorista.it

Computo dei soci lavoratori di cooperativa ai fini dell’integrazione del requisito dimensionale

In una società cooperativa, anche i soci lavoratori con rapporto di lavoro subordinato devono essere computati ai fini del requisito dimensionale per l’applicazione del regime di stabilità del rapporto di lavoro: con la conseguenza della fruibilità anche dai lavoratori dipendenti non soci della tutela prevista dall’art. 18, l. n. 300 del 1970, nel testo novellato dall’art. 1, comma 42, l. n. 92 del 2012.

Il caso. La Corte d’appello di Palermo aveva condannato una società di Autoservizi alla riassunzione entro tre giorni di un lavoratore licenziato, in mancanza, al pagamento, in suo favore a titolo risarcitorio, di un’indennità pari a quattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

La Corte palermitana aveva ritenuto violato l’obbligo di repechage, per l’assunzione di un nuovo dipendente, ancorché a tempo determinato e parziale, in concomitanza con la decisione del licenziamento e aveva ritenuto applicabile la tutela obbligatoria, in difetto del requisito dimensionale dell’impresa.

Cass., sez. lav., 11 marzo 2019, n. 6947

Fonte: ilgiuslavorista.it

Insussistenza del giustificato motivo oggettivo di licenziamento

L’ipotesi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo insussistente trova inquadramento, rispetto ai rapporti di lavoro ai quali si applica il vigente testo dell’art. 18, l. n. 300 del 1970, in due diverse fattispecie.

Esse sono caratterizzate, l’una, dalla semplice non ricorrenza degli “estremi del predetto giustificato motivo obiettivo” e, l’altra, dalla “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento”, che ha l’effetto, ove ricorrente, di rimettere
al giudice la decisione in ordine all’applicazione della tutela reintegratoria di cui all’art. 18, comma 4, st. lav., sulla base di una valutazione discrezionale (“può”) da svolgere in forza dei principi generali in tema di tutela in forma specifica e non eccessiva onerosità della stessa (art. 2058, c.c.) ed applicandosi altrimenti, pur nel palesarsi del vizio di maggiore gravità, la sola tutela indennitaria di cui al comma 5.

Cass., sez. lav., 31 gennaio 2019, n. 2930

Fonte: ilgiuslavorista.it

Licenziamento per scarso rendimento: possibile se il lavoratore reitera un comportamento poco diligente a discapito della produzione e del lavoro dei colleghi.

Spesso si parla di scarso rendimento; un tema delicato che intreccia gli interessi del dipendente, al quale non si può imporre un livello di produzione minimo o uno specifico obiettivo da raggiungere se non è previsto nel suo contratto, e del datore, il quale non può permettere che un dipendente troppo lento non produca e percepisca lo stesso stipendio di altri suoi colleghi.

Il licenziamento per scarso rendimento del lavoratore svogliato o lento richiede comunque che tale comportamento sia reiterato a discapito della produzione e del lavoro dei colleghi, che sono quindi costretti a fare anche il lavoro del collega poco diligente.

In un caso recente la Suprema Corte, nel ricordare che non c’è automatismo nell’irrogazione di sanzioni disciplinari anche in presenza di previsione collettiva in quanto permane sempre il controllo sulla proporzionalità della sanzione, ha ritenuto non violato il principio dell’onere della prova in relazione ai fatti integranti la recidiva dell’operaio. Determinanti si sono rivelati due precedenti negativi del lavoratore, puntualmente provati dal datore di lavoro con due distinte lettere di richiamo, mai contestati dal dipendente.

Sulla base di tali considerazioni la Cassazione ha stabilito che l’azienda ha legittimamente effettuato una prognosi negativa sulla possibilità di un aumento di diligenza da parte del dipendente, licenziando quest’ultimo per scarso rendimento.

Cassazione civile, sez. lav., 28/01/2019,  n. 2289