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Assegno divorzile: per le Sezioni Unite rileva il contributo fornito dal coniuge alla vita familiare

Le Sezioni Unite, con Sentenza n. 18287 depositata in data 11 luglio 2018, si sono pronunciate in merito alla questione controversa relativa all’individuazione dei criteri in base ai quali attribuire il diritto all’assegno divorzile.

La Suprema Corte, riconosciuta la funzione assistenziale e in pari misura compensativa e perequativa dell’assegno di divorzio, ritiene che ai fini dell’attribuzione e determinazione del relativo diritto, sia necessario l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi, o comunque dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, attraverso l’applicazione dei criteri di cui alla prima parte dell’art. 5, comma 6, L. 898/1970, adottando un criterio composito che alla luce della valutazione comparativa delle rispettive condizioni economiche e patrimoniali dia rilievo al contributo fornito dal coniuge richiedente alla formazione del patrimonio comune e personale, in relazione alla durata del matrimonio, alle potenzialità reddituali future e all’età dell’avente diritto.

Fondamento del parametro così delineato sono i principi costituzionali di pari dignità e solidarietà «che permeano l’unione matrimoniale anche dopo lo scioglimento del vincolo». Il contributo fornito alla conduzione della vita familiare costituisce, infatti, il frutto di decisioni comuni, libere e responsabili di entrambi i coniugi che possono incidere anche profondamente sul profilo economico di ciascuno di essi anche dopo la fine del matrimonio.

Fonte: ilfamiliarista.it

La pensione di reversibilità al coniuge divorziato si può ottenere anche senza sentenza definitiva sull’assegno divorzile

Per accertare il diritto a ricevere una quota della pensione di reversibilità del proprio ex coniuge defunto non è richiesto l’accertamento della spettanza dell’assegno di mantenimento con una pronuncia passata in giudicato. Al contempo però non è nemmeno sufficiente l’ordinanza presidenziale (ovvero l’ordinanza pronunciata dal Presidente e non dal Tribunale) che riconosce provvisoriamente il diritto all’assegno divorzile.

Il caso
Dinanzi al Tribunale di Bari veniva proposta domanda giudiziale di scioglimento del vincolo coniugale. Con l’ordinanza presidenziale all’ex moglie veniva concesso in via provvisoria un assegno decorrente dall’anno 2008 e il 1 marzo 2010 veniva emessa sentenza parziale di divorzio. Il giudizio proseguiva per le questioni patrimoniali e il marito contraeva nuove nozze (2 settembre 2010); dopo solo nove mesi (22 giugno 2011) interveniva poi il decesso dell’uomo. La prima moglie chiedeva quindi al Tribunale di Bari il riconoscimento del diritto a percepire, in concorso con la seconda, una quota della pensione di reversibilità e del TFR dell’ex coniuge. La domanda era rigettata dal Tribunale, che riteneva insussistente il presupposto della titolarità dell’assegno divorzile, imposto dalla legge per l’attribuzione richiesta. La donna impugnava la sentenza chiedendo altresì la sospensione del gravame, in quanto pendente in appello il giudizio sull’attribuzione dell’assegno divorzile in suo favore, questione ritenuta pregiudiziale ai sensi dell’art. 34 c.p.c.. La Corte territoriale non accoglieva l’istanza di sospensione e rigettava l’impugnazione, affermando che la pensione di reversibilità può essere attribuita solo se il diritto a percepire l’assegno divorzile è stato riconosciuto al coniuge richiedente con sentenza passata in giudicato.
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso per cassazione la prima moglie e resisteva con controricorso la seconda; nelle more del giudizio di legittimità, peraltro, interveniva la sentenza d’appello, che confermava il diritto della ricorrente a percepire l’assegno di divorzio con decorrenza dal passaggio in giudicato della sentenza non definitiva di divorzio.

Cass. civ., sez. I, 20 febbraio 2018, n. 4107

Fonte: ilfamiliarista.it

Insubordinazione e non licenziamento per il lavoratore che rifiuta mansioni diverse.

Con la sentenza n. 14391/18, depositata il 5 giugno la Suprema Corte ha confermato l’illegittimità del licenziamento intimato ad un lavoratore che, prima di conoscere la decisione del datore di lavoro circa l’assegnazione delle mansioni, aveva dichiarato di non essere disponibile allo svolgimento di attività diverse da quelle svolte fino a quel momento.

I fatti. Un lavoratore che era stato licenziato dalla società datrice di lavoro per grave insubordinazione per essersi rifiutato di svolgere le mansioni di magazziniere ed aveva fatto ricorso al giudice per far accertare l’illegittimità del licenziamento intimato. In primo grado il Tribunale respingeva il ricorso, poi la Corte d’Appello di Firenze, in riforma della pronuncia di prime cure, accoglieva il reclamo. I giudici d’Appello ritenevano che la dichiarazione del lavoratore di non essere disponibile allo svolgimento di attività diverse da quelle fino a quel momento svolte (inserimento di dati in un sistema informativo) non poteva essere considerata come giusta causa o giustificato motivo di recesso essendo avvenuta prima che il datore di lavoro individuasse le diverse mansioni esigibili in considerazione del suo stato di salute.
La società soccombente ricorreva in Cassazione.

Giusta causa. In tema di licenziamento, la giurisprudenza ha già avuto modo di affermare che la giusta causa configura una disposizione ampia ascrivibile alle clausole generali che deve essere poi specificata in sede interpretativa secondo le circostanze concrete. Tali specificazioni hanno natura giuridica e sono dunque deducibili in sede di legittimità.
Ciò posto, la Corte osserva che il ricorso attiene sostanzialmente alla ricostruzione del fatto che costituisce un prius rispetto all’applicazione di norme del diritto ed è quindi incensurabile in sede di legittimità, se non nei limitati del vizio della motivazione ex art. 360, n. 5, c.p.c.. La valutazione circa i contenuti delle dichiarazioni del lavoratore e del momento in cui esse sono state manifestate alla controparte, si sottrae dunque al vaglio dei Giudici di Piazza Cavour. La Corte d’appello ha correttamente valorizzato il fatto che il lavoratore avesse agito senza essere a conoscenza della decisione del datore di lavoro, escludendo una gravità della condotta tale da giustificare la sanzione disciplinare del licenziamento.
In conclusione la Corte rigetta il ricorso.

Fonte: dirittoegiustizia.it

L’indicazione del compenso e le altre comunicazioni obbligatorie dell’amministratore condominiale al momento della sua nomina

Trib. Milano 31 Maggio 2018

La comunicazione dei dati del amministratore appena nominato e la indicazione del luogo dove si trovano i registri condominiali, ai sensi dell’art. 1129, comma 2, c.c., è un adempimento che deve essere effettuato contestualmente alla accettazione della nomina; il mancato rispetto di tale adempimento costituisce ipotesi espressa di grave irregolarità tale da comportare la revoca giudiziale ma non comporta l’invalidità della delibera di nomina, in assenza di una espressa sanzione in tal senso, da parte dell’art. 1129 c.c. Per l’art. 1129, comma 12, c.c., la mancata specificazione dell’importo dovuto a titolo di compenso per la propria attività da parte dell’amministratore, in occasione dell’assemblea di nomina, comporta la nullità della nomina stessa.

(Cfr. Trib. Milano 3 aprile 2016, n. 4294; Trib. Salerno, 3 maggio 2011; Cass. civ., sez. II, 30 settembre 2013, n. 22313)

Fonte: condominioelocazione.it

Sezioni Unite: licenziamento nullo se intimato prima del superamento del periodo di comporto

Può un lavoratore venire licenziato per superamento del comporto se il periodo massimo di comporto fissato dalla contrattazione collettiva o dagli usi o secondo equità non risulti esaurito alla data del licenziamento?

No, secondo le Sezioni Unite della Corte di Cassazione.

I giudici hanno affermato il seguente principio di diritto: “il licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia o infortunio del lavoratore, ma prima del superamento del periodo massimo di comporto fissato dalla contrattazione collettiva o, in difetto, dagli usi o secondo equità, è nullo per violazione della norma imperativa di cui all’art. 2110, comma 2, c.c.”.

Ammettere come valido, sebbene momentaneamente inefficace, il licenziamento intimato ancor prima che le assenze del lavoratore abbiano esaurito il periodo massimo di comporto – spiegano le SS.UU. – significherebbe consentire un licenziamento che, all’atto della sua intimazione, è ancora sprovvisto di giusta causa o giustificato motivo e non è sussumibile in altra automa fattispecie legittimante. Si tratterebbe quindi di un licenziamento acausale disposto al di fuori delle ipotesi residue previste dall’ordinamento.

Pare quindi risolto il contrasto giurisprudenziale tra inefficacia fino all’esaurimento del periodo massimo di assenze concesso al dipendente e nullità ab origine del licenziamento intimato prima del superamento del periodo di comporto, a favore del secondo e più restrittivo orientamento.

(Cass. sez. un., 22 maggio 2018, n. 12568)

Responsabile l’amministratore condominiale che non verifica l’idoneità professionale dell’impresa che ha effettuato lavori sulle parti comuni

È possibile configurare una corresponsabilità dell’amministratore di condominio con l’esecutore materiale di opere edili in condominio per i danni cagionati dalle stesse in caso di ascrivibilità dell’evento al committente stesso per la c.d. culpa in eligendo, ossia per avere affidato l’opera a un’impresa assolutamente inidonea e, in violazione del D.lgs. 81/2008, non abbia compiuto le opportune verifiche sui requisiti tecnico-professionali dell’esecutore dei lavori.

Nel caso in esame la Corte d’Appello di Torino aveva condannato l’amministratore di uno stabile e un artigiano in quanto, con condotte colpose, avevano cagionato un incendio in un condominio amministrato dal primo. In particolare l’incendio era stato cagionato dall’imperizia dell’artigiano, che aveva realizzato dei lavori di impermeabilizzazione sul tetto con cannello collegato alla bombola del gas e aveva cagionato l’incendio.

L’amministratore proponeva ricorso in Cassazione, che veniva rigettato. L’amministratore, si legge nelle motivazioni, “avrebbe dovuto (nella duplice veste di mandatario del condominio e committente dei lavori) verificare l’effettiva attitudine dell’artigiano alla realizzazione dei lavori” e quindi giudicava opportuna la decisione del giudice del riesame che aveva valutato correttamente nel condannare l’amministratore ai sensi dell’art. 449 c.p. per l’incendio colposo cagionato dall’artigiano anche per causa dell’imperizia dello stesso amministratore nei predetti controlli al momento dell’affidamento dei lavori.

La Corte sottolineava, inoltre, nella citata sentenza come, per giurisprudenza costante, «l’amministratore che stipuli un contratto di affidamento di appalto di lavori da eseguirsi nell’interesse del condominio è tenuto, quale committente, all’osservanza degli obblighi di verifica della idoneità tecnico professionale dell’impresa appaltatrice» (v. Cass. pen., sez. III, 18 settembre 2013, n. 42347), e ciò in ragione della posizione di garanzia che egli assume verso il condominio con l’acquisizione del mandato, ai sensi e per gli effetti dell’art. 1130 c.c.

Dipendente pubblica su Facebook frasi diffamatorie nei confronti del datore di lavoro: licenziamento legittimo

La Cassazione Sezione lavoro, con Sentenza depositata il 27 aprile 2018 n. 10280, ha ritenuto legittimo il licenziamento di una lavoratrice colpevole di aver pubblicato frasi diffamatorie su Facebook nei confronti dell’azienda datrice di lavoro.

«La diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “facebook”» si legge nella motivazione della Sentenza «integra un’ipotesi di diffamazione, per la potenziale capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone»; la condotta della dipendente è quindi lesiva del vincolo fiduciario coessenziale al rapporto lavorativo.

La dipendente nelle proprie difese ha sostenuto di non essersi resa conto di esporre ad una moltitudine di utenti il suo sfogo, a suo dire diretto a pochi interlocutori, ma i giudici della Suprema Corte riguardo all’elemento soggettivo hanno ritenuto di applicare il principio della “non scarsa importanza” di cui all’art. 1455 c.c., precisando che affinché vi sia giusta causa di licenziamento l’elemento soggettivo non debba essere necessariamente doloso ma possa avere anche solo natura colposa, anch’essa idonea  a compromettere il vincolo fiduciario.

Cass. sez. lav., 27 aprile 2018, n. 10280

Privacy: per la Corte di Giustizia Europea va consentito l’accesso ai dati alle autorità competenti anche per i reati meno gravi

L’Avvocato Generale della CGUE Henrik Saugmandsgaard (causa C-207/16) afferma che «il diritto dell’Unione non osta a che le autorità competenti possano avere accesso ai dati di identificazione, detenuti da fornitori di servizi di comunicazione elettronica, qualora tali dati consentano di rintracciare i presunti autori di un reato che non presenta un carattere grave».

Nel caso oggetto della controversia, la questione nasceva a seguito di una rapina di un portafoglio e un telefono cellulare a seguito della quale la polizia giudiziaria spagnola, nell’ambito dell’indagine penale, chiedeva al Giudice istruttore l’autorizzazione per accedere ai dati identificativi dei numeri di telefono attivati dal cellulare rubato. Il Giudice respingeva la domanda ritenendo che secondo il diritto spagnolo l’accesso a tali dati sarebbe stato possibile solo in caso di reato grave.

In base alla Direttiva 2002/58/CE riguardante la vita privata e le comunicazioni elettroniche gli Stati membri possono limitare i diritti dei cittadini quando «tale restrizione costituisca una misura necessaria, opportuna e proporzionata all’interno di una società democratica per la salvaguardia della sicurezza nazionale (cioè della sicurezza dello Stato), della difesa, della sicurezza pubblica o per assicurare la prevenzione, la ricerca, l’accertamento e il perseguimento dei reati ovvero dell’uso non autorizzato del sistema di comunicazione elettronica».

In sostanza secondo l’Avvocato Generale, alla luce della citata Direttiva, nel caso in esame la misura richiesta dalla polizia giudiziaria comporta un’ingerenza nei diritti fondamentali in gioco non così grave da non essere consentita ed è quindi possibile consentire tale accesso, anche se il reato in questione presenta un carattere meno grave.

GDPR: circolano fake news su improbabili proroghe ma il Garante smentisce.

Negli ultimi giorni è circolata la notizia che l’autorità Garante avrebbe prorogato di sei mesi l’effettiva applicazione delle sanzioni, ma si tratta di un falso (Fake news).

Il GDPR, come ormai noto, è ufficialmente entrato in vigore il 25 maggio 2016 in tutti gli Stati membri dell’Unione Europea e – dopo ben due anni di tempo concessi dall’Unione Europea agli Stati membri per dare loro modo di adeguarsi – il prossimo 25 maggio 2018 il Regolamento UE 2016/679 diventerà definitivamente efficace.

Il Garante Privacy ha fatto sapere di non avere mai parlato di proroghe nè di periodo di grazia per le sanzioni alle aziende che, a seguito di ispezioni, fossero trovate non Compliance con il GDPR.

Viene quindi ribadito che dal 25 maggio 2018 in Italia inizieranno i controlli degli appositi organi di ispezione, come i nuclei ispettivi Privacy della Guardia di Finanza.

Privacy: il GDPR è solo l’inizio del cambiamento che segnerà il futuro

È ormai vicinissimo il 25 maggio 2018, data in cui il Regolamento UE 2016/679 (conosciuto anche come GDPR) diventerà efficace in tutta Europa. Il GDPR risponde ad esigenze imprescindibili e urgenti portate dal progresso tecnologico che è parte integrante della moderna società.*

In Europa la cultura della privacy sta attraversando un cambiamento epocale del quale ci renderemo effettivamente conto negli anni a venire. Ognuno di noi è coinvolto in questo cambiamento e le aziende devono essere in regola con la privacy dotandosi di una adeguata struttura, organizzata per tutelare e difendere sia i dati propri che quelli dei propri clienti, oltre che per evitare possibili sanzioni.

Professionisti e consulenti hanno il delicato compito di accompagnare le aziende nel processo di ‘privacy compliance’ tenendo presente il core business, nel rispetto del principio di proporzionalità. La compliance dovrebbe così essere integrata nella Mission aziendale affinché gli insegnamenti contenuti nel GDPR vengano effettivamente recepiti. Ove l’azienda affermi di essere interessata soltanto ad evitare la sanzione, senza curarsi di assimilare i principi del GDPR, saremmo in presenza di una cattiva abitudine che però può essere eliminata sostituendola con una buona.

Il concetto ormai noto di compliance è legato all’onestà e all’etica anche in relazione a principi deontologici o codici di comportamento e viene spesso associato all’onestà intellettuale. Al di là dell’obbligo normativo, quindi, perché è fondamentale essere privacy compliance? La risposta è duplice. Dal punto di vista teorico essere compliance significa dimostrare di aver compreso l’importanza del cambiamento (consapevolezza) adeguandosi al principio dell’accountability; dal punto di vista pratico la compliance serve a migliorare l’efficienza e il rendimento, tutelare e valorizzare i dati aziendali, migliorare la reputazione aziendale e conseguentemente incrementare il patrimonio aziendale. In altri termini un profitto.

Le aziende non devono temere tanto la sanzione quanto piuttosto il danno reputazionale derivante dal mancato rispetto delle norme in materia di privacy, con tutto ciò che ne consegue a livello economico e di immagine.**

Per usare le parole del GDPR, in virtù dell’accountability ognuno è investito da una grande responsabilità ogni volta che tratta dati personali. Tale responsabilità è tanto più grande quanto più il trattamento incide sulla libertà e sui diritti della persona.

Marco Domenico Luongo

* Il GDPR, nato dopo una lunga e articolata gestazione, arriva oltre vent’anni dopo la prima Direttiva Europea 95/46/CE in materia di protezione dei dati, dal recepimento della quale in Italia prese forma l’ormai vecchio codice privacy (D.lgs. 196/03), figlio di un’epoca in cui la tecnologia disponibile non era neanche lontanamente paragonabile a quella di oggi.

** Il recente caso di Facebook – Cambridge Analytica ha dimostrato al mondo intero che gli effetti di un ‘data breach’ (violazione di dati personali) vanno ben al di là di una sanzione. Sarebbe interessante chiedere a Mark Zuckerberg, CEO di Facebook, una stima del danno reputazionale derivante, ad esempio, dalla eventuale riduzione delle inserzioni pubblicitarie a pagamento da parte dei clienti vittime del data breach.